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Gli Stati uniti e la capitolazione del Brasile

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Pensiamo che per realizzare una corretta lettura dell’attuale scena internazionale, sia necessario partire dall’analisi della crisi che attraversa gli Stati Uniti. Questa crisi, a nostro avviso, più che una crisi economica, è una crisi strutturale del potere nordamericano. Una crisi che annuncia la fine dell’unilateralismo nordamericano e la nascita di un nuovo multipolarismo: il multipolarismo degli Stati continentali .

La causa strutturale della crisi del potere nordamericano

Al di là di qualsiasi possibile recupero dell’economia nordamericana e internazionale, dal nostro punto di vista, siamo di fronte a una crisi strutturale del potere nordamericano perché, per la prima volta, dal 1865, esiste una contraddizione tra gli interessi della borghesia nordamericana e gli interessi nazionali dello stato nordamericano. Questa cosa non era mai accaduta fino ad ora. Dalla fine della Guerra di Secessione (1865) negli USA è esistita una perfetta armonia tra gli interessi dello Stato nordamericano e quelli dell’alta borghesia nordamericana. Un’alleanza che, dopo la Guerra di Secessione, mise in moto un grande processo d’industrializzazione stimolato dallo Stato e protetto dalla concorrenza esterna mediante forti restrizioni tariffarie, paradoganali e sussidi, tanto nascosti quanto scoperti. Questo processo d’industrializzazione generò una enorme immigrazione europea verso gli Stati Uniti, favorendo un mercato interno in sviluppo e crescita permanente, generando un vero “circolo virtuoso di crescita” il che, a sua volta, consolidò, ancora di più, l’iniziale unione d’interessi tra l’alta borghesia e il proprio stato nordamericano. Quello che era utile per l’alta borghesia nordamericana lo era, anche, per lo stato nordamericano.

Tuttavia, quell’unione, che aveva gettato le basi strutturali del potere nordamericano iniziò a sgretolarsi nella decade del 1980. Agli inizi di quella decade degli ottanta, inizia un lento processo di deindustrializzazione quando l’alta borghesia nordamericana che era alla ricerca di un maggiore plusvalore, incomincia a trasferire la produzione industriale degli Stati Uniti verso i paesi dell’Asia. È anche vero che questo processo di trasferimento delle aziende nordamericane fuori dalle proprie frontiere si era prodotto già in passato verso l’America latina, ad esempio. In questo modo, durante le decadi del 1950 e del 1960, numerose aziende nordamericane avevano insediato stabilimenti per la produzione di beni industriali, principalmente in Brasile, in Argentina e in Messico. Ma, le aziende nordamericane si spostavano per produrre prodotti diretti alla vendita in quegli stessi mercati. Il giro che si produce a partire degli anni ottanta è assolutamente diverso perché, da quel decennio, le aziende nordamericane iniziano, principalmente in Asia, a produrre per gli Stati Uniti. Vale a dire, che le aziende nordamericane, insediate in Asia, cominciano a fabbricare, con lavoro straniero economico, prodotti che, successivamente, si sarebbero venduti nel mercato nordamericano.

Paradossalmente, l’elite politica e militare nordamericana, influenzata fondamentalmente dal pensiero strategico di Alvin Toffler [1] diede il suo appoggio all’alta borghesia, quando quest’ultima, alla ricerca di un maggiore plusvalore, incomincia a trasferire la produzione industriale degli Stati Uniti verso i paesi dell’Asia. L’idea sostanziale del pensiero strategico di Toffler – accettato in larga misura dall’elite politica e militare nordamericana – si fondava sul fatto che, attualmente, il potere si veicolava per mezzo della tecnologia d’avanguardia [2]. Quest’idea, che a un primo sguardo è vera, possiede, tuttavia, un errore. Dal punto di vista della costruzione del potere nazionale, la costituzione di un complesso apparato tecnologico non doveva compiersi mediante l’indebolimento dell’apparato industriale. Adottare uno, non doveva significare respingere l’altro. Tuttavia, partendo dal fatto che il potere consisteva, esclusivamente, nel possesso della tecnologia d’avanguardia, gli Stati Uniti cominciarono a specializzarsi mediante una grande Spinta Statale – proveniente dal complesso militare – spaziale -, indirizzata solo su di essa, scartando la sua applicazione nell’industria basica comune, perdendo per tale motivo, progressivamente, la leadership industriale [3].

Vale la pena ricordare che lo Stato americano sussidiò quello sviluppo tecnologico, poiché le compagnie private non l’avrebbero potuto fare, mai, da sole (i computer e internet, per citare solo alcuni esempi, furono sviluppi realizzati, in un primo momento, per il complesso aerospaziale – militare nordamericano. Si trattava di un sussidio “celato” che, mediante il sistema militare – spaziale, ricevettero le compagnie tecnologiche private nordamericane [4].

Nonostante sia vero che il potere passa attraverso il dominio dell’alta tecnologia, ciò che non si contempla in quest’analisi sviluppata dall’intellighenzia americana è che gli Stati Uniti stava diventando una società esclusivamente avviata verso il settore dei servizi e che quei servizi, naturalmente volatili, spostavano alla più stabile e inelastica produzione industriale, la quale a sua volta, rappresenta la principale fonte d’impiego permanente e molto più estesa per quanto concerne la sua capacità di assorbire personale del più variegato spettro di competenze. Di conseguenza, man mano che gli USA trasferivano il loro processo d’industrializzazione verso l’Asia, si andavano deindustrializzando e restavano privi di uno dei gradini del loro potere nazionale. Da allora e a partire dalla supremazia della loro moneta, cominciarono a “vivere alle spalle di qualcuno”. Quella è l’origine profonda della crisi del potere nordamericano. I problemi finanziari che oggi vediamo sono, così, una conseguenza e no la causa. La vera origine strutturale della crisi si fonda nel trasferimento della produzione industriale americana verso l’Asia, perché il plusvalore che otteneva l’alta borghesia americana era enorme se comparata a quella che poteva ottenere negli Stati Uniti. Dunque, è evidente che, dal punto di vista politico ed economico, gli Stati Uniti non erano più quelli che potevano essere stati nella Seconda Guerra Mondiale, né quello che avevano immaginato che potevano diventare dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica.

Conseguenze della crisi del potere americano

Siamo assertori dell’ipotesi che la crisi strutturale del potere americano implica tre conseguenze inesorabili: 1) la caducità dell’attuale ordine monetario internazionale; 2) La crisi terminale del paradigma neoliberale nella stessa culla del neoliberismo; 3) L’inizio della fine del tentativo di costruzione dell’unilateralismo americano, vale a dire, della cosiddetta “Pax Americana”.

Sin da quando è scoppiata “ufficialmente” la crisi economica internazionale – con il famoso collasso della megabanca d’investimenti “Bear Stern”, settembre 2008 -, si sono succedute una serie di riunioni del cosiddetto “G-20”, nell’ultima di queste riunioni, realizzata, precisamente un anno dalla deflagrazione, il 24 settembre 2009, nella città americana di Pittsburgh. In queste riunioni, gli Stati Uniti hanno avuto come obiettivo quello di lasciare fuori discussione il grande problema di fondo: la caducità dell’ordine monetario internazionale instaurato con la fine della Seconda Guerra Mondiale, in altre parole, l’ordine monetario fondato sull’indiscutibile potere del dollaro come moneta internazionale di riserva e di scambio. Finita la Seconda Guerra Mondiale, l’egemonia del dollaro divenne l’espressione naturale del vincente potere americano. Tal egemonia monetaria fu una conseguenza logica del potere strutturale degli Stati Uniti. Annientato il Giappone, sconfitta la Germania e completamente esausta la Gran Bretagna – dovuto alla tardiva e calcolata entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale – l’egemonia del dollaro costituì, semplicemente, l’espressione superstrutturale del potere strutturale degli Stati Uniti. Nel 1945, era il potere politico, economico e militare americano quello che sosteneva e sostentava l’egemonia del dollaro come moneta di riserva e di cambio. Nel 2009, l’economia del dollaro è quella che sostenta e sostiene il potere politico, economico e militare americano. Attualmente, l’egemonia americana si sostiene grazie al dollaro che detiene ancora il privilegio di seguitare a essere la principale moneta mondiale di scambio.

La realtà odierna indica che è il dollaro quello che sostiene il potere americano e no – quello che sarebbe stato logico – che il potere americano sostenga la sua moneta. Ciò costituisce un nuovo fatto che, alla luce dei recenti avvenimenti, rappresenta un cambiamento fondamentale, irreversibile per ragioni strutturali, poiché non siamo presenti – come avevamo già accennato – davanti a una semplice crisi congiunturale del potere americano, bensì a una crisi strutturale dello stesso.

La crisi strutturale del potere americano implica, inoltre, la crisi della dottrina economica – la quale, d’altra parte, era una specie di “ideologia ufficiale” dello Stato americano – il quale postulava come principio scientifico che lo Stato non sarebbe mai dovuto intervenire nel mercato. Tuttavia, attualmente, per via della crisi, alcune “aziende di spicco” del potere americano, come la General Motors, sono società di proprietà dello Stato americano. Ciò che appare essere veramente trascendente è che si è consumata la più importante nazionalizzazione della storia dell’umanità, cioè la nazionalizzazione della General Motors, della quale lo Stato americano si è appropriato niente meno che del 70% del pacchetto azionario. Così, dunque, un’altra icona degli Stati Uniti, la City Bank, è in sostanza anche una banca nazionalizzata. Nello stesso tempo, un altro simbolo degli Stati Uniti – in questo caso un’icona culturale – come lo è l’Università di Harvard, ha dichiarato di avere un deficit budgetario di circa il 35%, vale a dire, che versa in gravi difficoltà finanziarie. Di fronte a questi problemi, il modello neoliberale, si svuota dei suoi strumenti: non sa cosa fare.

Se da un lato, questi semplici esempi non vogliono dimostrare che ci troviamo di fronte alla più acuta crisi del neoliberismo perché, oltre a ciò, questa crisi si è originata in seno allo stesso e, dall’altro, ci avviamo verso un momento nel quale gli stati periferici avranno la possibilità di rifiutare, in maniera assoluta e, di fronte al suo palese fallimento, il paradigma neoliberale.

Perché? Per la semplice ragione che i difensori di questo modello neoliberale non troveranno nessuna forma per difenderlo e applicarlo nella periferia, giacché esso è fallito nel proprio centro. Oggi, è lo Stato americano a sborsare quantità ingenti di denaro per riscattare la General Motors, il sistema bancario e molte altre aziende. L’opposto di quanto loro avevano predicato durante trenta anni. È lo Stato quello che interviene risolutamente nell’economia per salvare un’industria americana, una banca americana e sarà quello che interverrà, se necessario, per salvare un’università americana. Di ciò, non deve restare la minima ombra di dubbio.

D’altra parte, come abbiamo in precedenza segnalato, questa crisi implica la fine – o l’inizio della fine – del tentativo di costruzione dell’unilateralismo americano; vale a dire, dell’incondizionata egemonia americana. E allora, la domanda d’obbligo naturalmente è: verso dove stiamo andando? La risposta è semplice: ci avviamo verso un nuovo multipolarismo, che sarà il multipolarismo degli stati continentali che s’innalzeranno per il governo –formale o informale- del mondo.

E oggi, chi sono i candidati che integreranno questo governo, formale o informale, del mondo? Certamente, gli Stati Uniti, furono il primo Stato nell’edificarsi come uno Stato continente industriale e che, nonostante la crisi, manterrà fattori di potere decisivi. La Russia, uno Stato continente in processo di recupero, a cominciare da Putin. La Cina, uno Stato continente in un processo d’industrializzazione accelerato. L’India, in pratica, con la stessa quantità di abitanti della Cina è, anch’essa, uno Stato continente in processo d’industrializzazione. Infine, un candidato che integrerà questo governo del mondo sarebbe l’Unione Europea, se riesce a coordinare una politica estera e di difesa comune.

Certamente, il Brasile aspira occupare un posto in questo tavolo. Gli Stati che non si siederanno in questo tavolo, non avranno nulla da fare. Saranno, semplicemente, il “coro” della storia.

Tuttavia, vale la pena mettere in chiaro che a questo nuovo multipolarismo non si potrà giungere senza che prima si passi per un’intensa fase di confronto, giacché per gli Stati Uniti il fatto di dover accettare una riduzione del proprio ruolo sullo scacchiere internazionale o, persino, una “ripartizione” delle responsabilità con l’Europa, il Giappone, la Russia, la Cina, l’India e, eventualmente, il Brasile, implicherebbe una riforma del sistema monetario internazionale, la perdita del privilegio del dollaro e, quindi, lungi dal consentire un recupero sostenuto e strutturale della propria economia, affogherebbe il flusso di capitali che opera a suo favore, portandolo a un aspro collasso economico che implicherebbe, a sua volta, il collasso strategico militare dovuto all’incapacità di mantenere la spesa del suo macchinario bellico.

Gli Stati Uniti: da potenza globale a potenza regionale

La nostra principale ipotesi è che, gli Stati Uniti, dovuto tra gli altri fattori, alla crisi strutturale che attraversa, passeranno, gradualmente, da potenza globale a potenza regionale. Ciò nondimeno, è necessario rilevare che gli Stati Uniti non si rassegneranno così facilmente a questo passaggio. È ragionevole esaminare che il potere americano darà battaglia – una battaglia, possibilmente, sempre più virulenta -, su tutti i fronti possibili. In questo senso, siamo del parere che il sistema internazionale attraverserà un periodo di forti agitazioni. Durante questo periodo, gli Stati Uniti faranno uso tanto del loro potere soft [5] quanto del loro potere duro, al fine di ritardare il loro passaggio da potenza globale a potenza regionale.

In questo senso, cercheranno di espellere la Cina e l’Africa Orientale, cominciando dal Sudan e approfittando della violazione sistematica che, dei diritti umani, fa il governo sudanese, tradizionale alleato di Beijing. Forse, questa manovra comincerà con l’esposizione del tema all’ONU davanti al Tribunale Penale Internazionale. Queste azioni, tuttavia, potrebbero portarle avanti stati terzi.

Per quanto concerne l’Eurasia, gli Stati Uniti faranno in modo di evitare qualcosa che, per l’Europa, è fondamentale: l’alleanza con la Russia. L’Europa ha bisogno della Russia e la Russia ha bisogno dell’Europa. Mentre la Russia troverebbe in Europa la tecnologia e i capitali di cui necessita per il suo sviluppo, l’Europa troverebbe nell’enorme territorio russo, l’energia e le materie prime che necessita per continuare a sopravvivere in un mondo che si avvia verso una “crisi di cambiamento”.

Una “crisi di cambiamento” è quella in cui, tanto il vecchio modello energetico quanto il vecchio modello d’industrializzazione, non smettono di morire e i nuovi modelli, chiamati a rimpiazzarli, non finiscono di nascere. Si caratterizza per essere un periodo di crisi esistenziale, perché l’insufficienza della disponibilità dei diversi minerali indispensabili per il processo industriale, dipenderà dalla stessa insistenza delle grandi potenze. Questa “crisi di cambiamento” solo potrà essere superata dall’Europa in alleanza con la Russia. Questo scenario implica, per gli Stati Uniti, il pericolo di perdere il suo tradizionale alleato europeo.

Stati Uniti e l’America del Sud

La conseguenza logica del passaggio degli Stati Uniti da potenza globale a potenza regionale consiste nella necessità impellente che ha, d’ora in poi, il potere americano, di garantire che l’America del Sud diventi una zona soggetta alla sua esclusiva influenza politica ed economica. È, sotto questa linea di analisi, che si devono giudicare fatti come l’installazione di basi militari in Colombia o il golpe in Honduras. Per osservare qual è la reazione, tanto dei governi, quanto dell’opinione pubblica latinoamericana, è stato eseguito quel tremendo golpe in Honduras. È possibile che stia studiando un golpe civico – militare in Bolivia, per avere sotto controllo il “cuore geopolitico” dell’America meridionale. Forse, i centri di commando degli Stati Uniti, stanno ipotizzando l’organizzazione di un golpe in Paraguay per riuscire a stabilire un “assedio” intorno al Brasile.

La logica politica intrinseca al potere indica che gli Stati Uniti non potrebbero raggiungere l’obiettivo di garantire che l’America del Sud diventi una zona soggetta alla loro esclusiva influenza politica ed economica, se prima non raggiunge la capitolazione del potere più importante dell’America meridionale, vale a dire, la capitolazione del Brasile e questo fatto è inesorabile come la morte.

Le possibili reazioni del Brasile

Vale la pena sottolineare che il Brasile è, oggi, l’unico paese dell’America meridionale che possiede la vocazione di attore globale. Rammentiamo che l’Argentina seppellì quella vocazione con la morte del presidente Juan Domingo Perón, il 1° luglio 1974. Il Brasile pensa se stesso, sin dall’inizio della sua vita indipendente, come una potenza mondiale [6]. D’altra parte, bisogna rendere evidente che il Brasile è perfettamente conscio della sua più elevata guida diplomatica e, da ormai molto tempo, che la sinergia degli avvenimenti lo porta a una situazione di conflitto con gli Stati Uniti [7]. Di fronte a questa possibilità di conflitto, il Brasile ha sviluppato e sviluppa, una serie di azioni, tanto tattiche quanto strategiche.

In questo modo, il Brasile, dal punto di vista tattico, di fronte al colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti in Honduras per destituire il presidente costituzionale Manuel Zelaya, ha reagito cogliendo di sorpresa gli organi d’intelligenza americani, sistemando il deposto presidente Zelaya all’interno della propria ambasciata a Tegucigalpa e consentendo l’utilizzo della stessa come base di operazioni politiche da parte di quest’ultimo. L’operazione per il ritorno di Zelaya – concertata dal Brasile e dal Venezuela – costituisce, senza dubbio, una sfida che il Brasile ha lanciato agli Stati Uniti nella regione che Washington considera il proprio cortile posteriore. D’altra parte, dal punto di vista strategico, la principale decisione presa dal Brasile consiste nell’accelerazione della costruzione del complesso militare nucleare che gli consenta di accedere alla tecnologia necessaria per lo sviluppo di armi nucleari. Questa ferma decisione brasiliana, era già stata anticipata con evidente franchezza dal Segretario di Strategia e rapporti Internazionali del Ministero della Difesa, il Generale dell’Esercito brasiliano, José Benedito de Barros Moreira, quando, analizzando il futuro scenario mondiale, affermò: “Il Brasile deve accedere alla tecnologia per lo sviluppo della bomba nucleare … il Brasile è un obiettivo della cupidigia (mondiale) perché possiede acqua, alimenti ed energia. È, per questa ragione, che abbiamo bisogno d’inserire un lucchetto resistente nel cancello” [8]. Lo stesso generale brasiliano, ha affermato, inoltre, che il panorama attuale rivela un mondo “violento e pericoloso” e ha aggiunto: “Stiamo osservando nella nostra regione sudamericana punti di tensione che possono sfociare in fuochi attivi che devono essere seguiti con attenzione”. Finendo la sua analisi, il generale José Benedito de Barrios Moreira, ha affermato: “Nessuna nazione può sentirsi sicura se non sviluppa la tecnologia che la renda idonea per difendersi se fosse necessario” [9]. Come epilogo possiamo affermare che il Brasile sarà per gli Stati Uniti – come può osservarsi nell’analisi delle azioni tattiche e strategiche adottate dal potere brasiliano – un osso duro da rodere. Visto il suo alto grado di coscienza nazionale e l’alta qualità professionale del suo corpo diplomatico e militare, il Brasile non capitolerà facilmente.

Marcelo Gullo è Dottore in Scienza Politica e Magister in Rapporti Internazionali. Tra i suoi libri: “Argentina-Brasil: La gran oportunidad (altro…)


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